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14 Ottobre 2025

PSICOLOGIA – Mio figlio è adottato. Quando glielo dico?

AGIPRESS – Il momento forse più difficile per ogni genitore adottivo è quello nel quale si pone il problema di esporre al figlio i fatti che riguardano le sue origini. È questo un intervento necessario al fine di consentirgli di creare un ponte di ricongiungimento con la propria identità biologica. È il momento in cui si sente che il bambino, adottato in età di non consapevolezza, deve sapere che la sua storia merita di essere raccontata. È umano, in quel momento, che nel genitore insorga il timore, che parlando di qualcosa che così profondamente entra nella sfera intima del bambino, si possano alterare i rapporti, che qualcosa possa cambiare. In questo difficile momento possono aiutare solo la verità e l’amore. La verità, detta con amore, può solo costruire, non distruggere, perché aiuterà il bambino a realizzare la propria identità completa e vera. Non parlare dell’adozione o rimandare troppo la spiegazione non è utile. I bambini vanno protetti, all’interno, ma anche all’esterno della famiglia e devono saper parlare serenamente della loro situazione anche con estranei che magari sono indelicati e non rispettano la loro sensibilità. In primo luogo, dunque, la consapevolezza, fornisce loro protezione nei confronti di soggetti estranei che possono ferirli, approcciando l’argomento in maniera rozza e priva di delicatezza o magari quando il bambino ancora non sa nulla. La consapevolezza è poi un sostegno anche interiore per il bambino. Secondo la psicologia dello sviluppo, la conoscenza delle proprie origini è una radice emotiva che permette al bambino di sentirsi completo, di congiungere il suo passato con il suo presente, quando passato e presente possono anche essere diametralmente opposti e confliggenti tra di loro. Come spiega il pediatra e psicoanalista Donald Winnicott, “un bambino può sopportare ogni verità, purché la verità sia detta con amore”. Va poi ricordato che i bambini hanno, quale difesa naturale, un istinto che li porta a “sentire” la verità anche quando non viene esplicitata ed ancora prima di avere i mezzi razionali per comprenderla. È la forza dell’intuito infantile e se questa verità non gliela si racconta, possono percepire l’esistenza di un non detto o addirittura di un segreto che li riguarda, di qualcosa di cui non si può parlare. Riferirsi serenamente alla loro realtà e quindi all’adozione significa rendere l’argomento un fatto naturale e porre il bambino adottato su un piano di normalità e non di eccezionalità.

Ma quando parlarne? La letteratura scientifica sul punto è concorde: prima è, meglio è. Lo scopo di un intervento precoce nel dare indicazioni sull’origine biologica è quello di evitare la “rivelazione” improvvisa di una realtà così importante per il bambino e per la famiglia, rivelazione che può comportare uno shock se del tutto inaspettata. Fin dai primi anni, dunque, si può introdurre l’idea dell’adozione con parole semplici, puntando sull’affetto e sulla tenerezza. “Mamma e papà sentivano che c’era il loro bambino che li stava aspettando ed hanno fatto di tutto per trovarlo: eri tu”. Parlare di questo può diventare parte della quotidianità: nei racconti della buonanotte, nei disegni, nei momenti di coccole, di confidenza. L’argomento adozione deve, dunque, sempre essere associato e completato da manifestazioni di affetto e di piena accettazione del bambino che assocerà così l’idea dell’adozione a qualcosa di positivo per lui e per la famiglia, non vedrà un aspetto negativo. Man mano che il bambino cresce, la storia si potrà allargare ai particolari, alle emozioni provate, all’ esperienza dei genitori. Si possono mostrare fotografie dei luoghi dove il bambino è stato. Si può raccontare di quante traversie papà e mamma abbiano affrontato (e ce ne sono davvero molte), di quanto abbiano lottato pur di averlo con loro, facendolo così sentire desiderato, voluto, cercato. L’importante è che la parola “adozione” non arrivi come una rivelazione improvvisa o come qualcosa di negativo, ma come qualcosa che è sempre esistito, come l’amore.

Attenzione alle parole perché possono curare o invece ferire profondamente. Quando si parla di adozione, le parole contano. Mai quindi utilizzare espressioni come: “Ti abbiamo portato via da un brutto posto.” “I tuoi veri genitori non ti volevano.” Sono messaggi capaci di creare sensi di colpa, profonda insicurezza e dolore. Andranno usate parole diverse che facciano sentire il bambino desiderato ed accettato: “Ti abbiamo davvero desiderato tanto” “Siamo stati fortunati a trovarti” “La tua famiglia di nascita non aveva la possibilità di tenerti, ma ha fatto in modo che stessi bene così che noi potessimo trovarti ed amarti con tutto il cuore.” Bisognerà, quindi, avere l’accortezza anche di non colpevolizzare mai la famiglia o la madre biologica. Il bambino, se possibile, dovrà sentire di essere stato amato da tutti, da ciascuno secondo i propri mezzi e le proprie risorse. In questo modo sentirà che la sua storia non è una ferita aperta, ma un incontro d’amore.

L’adozione è l’inizio di una nuova stagione di vita, per il figlio e per i genitori adottivi. Per il bambino, però, questo inizio deve trovare fondamento su una storia ed un passato reali, con la consapevolezza della propria origine. Per la sana crescita di ogni bambino, anche non adottato, occorre dedizione di tempo, di amore e di emotività condivisa. Nel bambino adottato serve qualcosa in più. Tre elementi sono fondamentali: l’accoglienza incondizionata, perché il bambino non deve mai sentirsi su un “banco di prova” affettivo, ma sapere, con certezza che l’amore dei genitori è incrollabile; la stabilità e la coerenza, perché la ripetizione nei gesti quotidiani e la routine donano sicurezza e fiducia; l’ascolto e libertà nella parola, perché il bambino potrà chiedere notizie circa la sua famiglia di origine e bisogna lasciarlo fare rispondendo, per quello che si può e si sa. Questa curiosità è per lui un mezzo per riempire dei vuoti che vanno colmati, non un desiderio di distacco dai genitori adottivi.

John Bowlby, padre della teoria dell’attaccamento, sosteneva che ogni essere umano ha bisogno di una “base sicura” da cui esplorare il mondo. Per dare una base sicura ad un bambino adottato bisognerà “lavorare” di più, perché si dovrà cercare di conciliare ed armonizzare due realtà diverse. Bisognerà chiudere una spaccatura fisica e temporale, dandogli la consapevolezza che entrambe lo hanno portato ad essere quello che è e che anche per questo lui è molto amato. Le manifestazioni di amore e il colloquio semplice e franco lo aiuteranno a costruire la propria fiducia in se stesso e nella sua famiglia. Insieme si crescerà, come figli e come genitori, imparando reciprocamente come amarsi e sostenersi. L’afflato emotivo e l’amore possono guarire, ma è necessario lavorare incessantemente per questo. Resta valida l’affermazione “Non ti ho dato la vita, ma tu hai dato senso alla mia.”

Alessandra Campanini – Psicologa clinica

AGIPRESS

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